“La zona d’interesse” di Jonathan Glazer non è un film sull’Olocausto come tanti altri. Non ci sono scene di violenza esplicita, non ci sono primi piani sui volti sofferenti dei prigionieri. La macchina da presa rimane a distanza, osservando la quotidianità di una famiglia tedesca che vive accanto ad Auschwitz come se nulla fosse. Ed è proprio questa “normalità” a rendere il film così disturbante e profondamente inquietante.

La dissociazione come meccanismo di sopravvivenza

Il film ci mostra come la mente umana sia in grado di attuare meccanismi di difesa estremi per sopravvivere in situazioni traumatiche. La famiglia Höss, con il comandante Rudolf in testa, vive in una sorta di bolla, isolata dal mondo esterno e dall’orrore che la circonda. La dissociazione diventa uno strumento di sopravvivenza, permettendo loro di ignorare il fumo del crematorio, le urla dei prigionieri, la sofferenza che si consuma a pochi passi da loro.

Questo meccanismo di difesa, seppur estremo, è comprensibile dal punto di vista psicologico. La mente umana, di fronte a un trauma di tale portata, cerca di proteggersi, di anestetizzare le emozioni, di creare una distanza dalla realtà. Ma la dissociazione ha un prezzo: la perdita di contatto con la propria umanità, l’incapacità di empatizzare con il dolore altrui.

La costruzione di una “normalità” distorta

La famiglia Höss non si limita a ignorare l’orrore, ma lo integra nella propria quotidianità, costruendo una “normalità” distorta e agghiacciante. Il giardino curato, le feste in famiglia, le chiacchiere tra vicini, diventano un modo per negare la realtà, per creare un’illusione di serenità in un contesto di morte e distruzione.

Questo processo di normalizzazione dell’orrore si basa su diversi meccanismi psicologici:

Il silenzio come forma di complicità

Hedwig, la moglie di Höss, rappresenta un altro aspetto psicologico cruciale del film: il silenzio come forma di complicità. Pur essendo consapevole delle atrocità che avvengono nel campo, Hedwig sceglie di non opporsi, di non denunciare, di non rompere il silenzio. Il suo è un silenzio che nasce dalla paura, dalla convenienza, dal desiderio di proteggere la propria famiglia. Ma è un silenzio che la rende complice del sistema di oppressione e di sterminio.

Un film che ci interroga sulla natura umana

“La zona d’interesse” non è un film facile da guardare. Ci mette di fronte alla banalità del male, alla capacità dell’uomo di compiere atrocità indicibili, alla fragilità della nostra coscienza morale. Ma è proprio questa la sua forza. Ci costringe a riflettere sulla natura umana, sui meccanismi psicologici che permettono l’attuazione di crimini contro l’umanità, sulla responsabilità individuale di fronte al male.

Il film ci lascia con una domanda inquietante: cosa avremmo fatto noi al posto della famiglia Höss? Avremmo avuto il coraggio di opporci, di rompere il silenzio, di difendere i più deboli? O saremmo stati anche noi complici, passivi spettatori dell’orrore?

Un invito alla riflessione e all’azione

“La zona d’interesse” non è solo un film sul passato, ma anche un monito per il presente. Ci ricorda che i meccanismi psicologici che hanno permesso l’Olocausto sono ancora attivi, che la violenza e l’ingiustizia sono presenti in molte parti del mondo.

Il film è un invito alla riflessione e all’azione. Ci invita a non dimenticare il passato, a vigilare affinché simili atrocità non si ripetano mai più, a combattere ogni forma di discriminazione e di intolleranza.

per saperne di più:

https://it.wikipedia.org/wiki/La_zona_d%27interesse

https://www.mymovies.it/film/2023/la-zona-dinteresse/news/un-film-sullorrore-che-fingiamo-di-non-vedere

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